Piccoli social marketer crescono

Entrando in una scuola superiore ho notato, nella bacheca riservata agli studenti, il foglietto che vedete nella foto. Mi ha colpito per due motivi. 

1. I ragazzi di questa band si presentano in due versioni, con due nomi e repertori differenti. Repertori e nomi si rifanno a due mitologie e racconti diversi con cui si offrono al pubblico. Questa capacità di rappresentazione a autorappresentazione liquida, multi e proteiforme mi pare identificabile con la natura rappresentativa e narrativa del mondo social. La capacità di generare una varietà di vite e di intrecci, collegandoli a un unico profilo, accomuna mondo reale e mondo digitale. Entrambi appartengono alla stessa episteme, declinano le stesse pratiche discorsive, per dirla con Foucault. Forse sarebbe utile non separare più i due mondi. E parlare di mondo reale e basta. 

2. Questi ragazzi "socializzano" targetizzandosi. Vendono musica e narrazioni proponendosi a diversi segmenti di pubblico, per quanto probabilmente affini. Hanno un'anima marketing già ben impostata. Forse non lo sanno, ma probabilmente potrebbero avere un futuro nel mondo della comunicazione. 

Che noia il corporate storytelling

I miei colleghi che si occupano di Relazioni Pubbliche (insieme abbiamo fatto bei lavori), hanno scoperto da qualche anno il corporate storytelling. Sarei ingiusto se dicessi che per loro è una semplice evoluzione degli house organ e delle newsletter. Ma di fatto ha le stesse funzioni. Serve a migliorare la reputazione, a rafforzare i legami con i cosiddetti stakeholder, a consolidare la comunicazione interna. 

Come si raggiungerebbero questi obiettivi? Spingendo l'azienda, intesa come organizzazione di persone, a parlare di sé. A raccontarsi. Ecco allora, ad esempio, le community dei dipendenti che raccontano la loro vita in azienda, parlano di diete o viaggi, propongono idee e progetti; il profilo Facebook dedicato all'anima ecologista dell'azienda e agli eventi collegati; il blog in cui l'amministratore delegato si fa conoscere non come imprenditore, ma per le attività filantropiche o per le imprese del suo team di vela. 

Cos'è la storia in tutti questi casi? Diario, cronaca, resoconto. Io invece sono per la fiction, per la storia immaginata a partire dalle potenzialità di un prodotto o di una marca. Penso non solo che sia più divertente, ma anche più efficace proprio per migliorare reputazione, creare fidelizzazione, rafforzare lo spirito aziendale. 

Facciamo un esempio facile facile. La Apple è costituzionalmente refrattaria al corporate storytelling. Per un'organizzazione che vive di segreti inviolabili e di un'assoluta chiusura all'esterno, parlare di sé sarebbe come votarsi all'autodistruzione. Ve la immaginate, poi, la community dei lavoratori della Foxconn?

Eppure non ci sono storie più vivide di quelle raccontate dai suoi prodotti. Storie capaci di generare appartenenza, fedeltà, reputazione praticamente infinite. Prendiamo anche l'ultima campagna Iphone. Un magnifico esempio di pura fiction: la storia di uno smartphone costruito guardando com'è fatta la mano, o di un auricolare progettato osservando l'orecchio. Tutto il mito Apple si fonda su queste piccole storie che, nella loro semplicità, aprono orizzonti di senso. 

Non solo. Tutta la storia Apple, con i suoi alti e bassi, con il periodo d'oro cominciato con il ritorno di Jobs, può essere vista come una fiction per la tv. Ogni lancio di un nuovo prodotto è costruito come un episodio seriale. Da una parte la forte personificazione del prodotto: un oggetto magico che rivoluziona il modo di vedere e di fare le cose. Dall'altra un crescente coinvolgimento emotivo, che ha nella presentazione il colpo di scena finale. Lo stesso Steve Jobs non esiste al di fuori di questa fiction. E' il suo protagonista principale. La sua storia personale (ad esempio i primi anni nel garage con Wozniak) è stata rilanciata solo a partire dai primi anni 2000, con la nuova fase Apple, quasi come un prequel che mostrava come tutto è cominciato. 

Chiudo con una nota che faccio a scanso di equivoci. Non dico che il corporate storytelling non possa dare risultati significativi. Tutt'altro. Ma credo che debba far parte di una strategia narrativa più generale, in cui il prodotto e la marca siano studiati per creare un nuovo immaginario.


P.S. Nei miei testi le parole straniere, a partire da quelle inglesi, sono trattate rigorosamente secondo le regole della lingua italiana, che vuole invariati  i termini importati da altre lingue anche quando sono al plurale. Perciò avete trovato scritto stakeholder e non stakeholders (come ormai si usa fare, credendo così di far vedere che si conosce l'inglese. In realtà si mostra soltanto di non sapere l'italiano). 

Uno storyteller di nome Tacito

Si è chiuso ieri l'Internet Festival di Pisa. Il programma era declinato in tre aree tematiche: makers, tellers, citizens. La sezione tellers ha esplorato la rete come spazio per l'espressione politica alternativa ai mezzi mainstream. Come luogo che dà voce a realtà che altrimenti rischierebbero di rimanere emarginate e sconosciute. I tellers, in questo senso, si contrappongono o, comunque, si differenziano dagli storytellers. Come la realtà dalla fiction. Come l'informazione dalla comunicazione d'impresa. Rispetto ai contenuti, al che cosa viene raccontato, è probabilmente vero. Rispetto alla funzione-racconto non sono però così diversi. Penso anzi che avrebbero da guadagnarci se mescolassero le loro rispettive specificità. Se in qualche modo unissero le potenzialità dell'informazione e del "reportage" a quella della comunicazione immaginativa e simbolica. Se si descrivessero i fatti (ma anche prodotti o marche) creando momenti narrativi forti, crescita di tensione e partecipazione. Non c'è niente di nuovo. Tacito, tanto per fare un nome antico e contemporaneo allo stesso tempo, conosceva benissimo questa tecnica. Il suo esempio continua ancora adesso a produrre effetti, anche se in contesti diversissimi. Solo due giorni fa, ad uno sciopero, alcuni studenti innalzavano un cartello che riportava le famosissime e splendide parole che Tacito mette in bocca a Calgaco, capo dei ribelli scozzesi, quando davanti al suo popolo sconfitto riassume così le politiche imperiali romane: "Dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace". 

Vecchi miti, nuovi eroi

Negli ultimi anni abbiamo assistito ad alcuni tentativi di far rivivere il mito dei vecchi Caroselli. Mi vengono in mente Ringo per Montana e Carmencita per Lavazza. Da poco è tornato anche Calimero, con la nuova campagna e il riposizionamento di Ava (www.avaforzanaturale.it). Tuttavia i "returns" non sono tutti uguali. Alcuni, come il Ringo di Montana, sono destinati a durare poco o avere scarso successo. Altri, come Calimero, possono invece avere qualche chance. Vediamo perché. 

1. Ringo e Carmencita: non basta avere una lunga storia per creare una buona storia.
Che audience e quale immaginario vanno a colpire questi revival? Alla fine solo quelli dei cinquantenni che dovrebbero recuperare la fedeltà alla marca attraverso un coinvolgimento emotivo per personaggi e storie che hanno popolato la loro infanzia. Senonché questa operazione non funziona. Storie e miti muovono all'azione se producono significati reali, vivi e presenti. Qui al massimo producono nostalgia per un tempo lontano. Passato. Che non torna più. Un sentimento negativo, dunque, che non può certo spingere al desiderio di un prodotto o alla passione per un brand. 

2. Il nuovo Calimero ripulito da stereotipi controproducenti
Il nuovo Calimero ha poco a che vedere con quello dell'Olandesina degli anni '60. Il vecchio Calimero incarnava di fatto la sindrome di persecuzione (nessuno mi vuole, nessuno mi ama, ecc.), riassunta nel celebre lamento finale "è un'ingiustizia, però". Una figura stereotipata dai tratti molto ambigui e controversi. Poteva essere amata o odiata. Generare simpatia o repulsione. Non va poi dimenticato lo stereotipo razzista del pulcino che da nero diventa bianco. Più che la favola del brutto anatroccolo, faceva venire in mente una brutta storia da Ku Klux Klan.

Il nuovo Calimero è il campione vitalissimo dell'ambiente e dell'ecologia che mette tutti d'accordo ed è legato al riposizionamento AVA nel campo della sostenibilità. E, inoltre, rimane sempre nero.




Infine va ricordato che il ritorno di Calimero in pubblicità è stato lanciato dal suo ritorno qualche anno fa come personaggio di storie e libri per bambini. Non è perciò un'operazione improvvisata come Ringo e Carmencita. Non è la riproposizione di un mito sbiadito dal tempo che parla solo all'audience ristretta di chi vedeva Carosello. Ma la metamorfosi di un eroe che, ritornando, cerca di coinvolgere più generazioni in una stessa storia. Quella di un mondo da salvare e di un futuro sostenibile per tutti. 

Eppure anche Fiorello è un mito

Partita la nuova campagna Wind con la coppia di  fatto Fiorello-Baldini. Una formula collaudata e probabilmente efficace, in linea con un target di riferimento ampio e un immaginario, per così dire, molto pop.

Si tratta di un tipo di pubblicità che apparentemente non sembra avere quelle funzioni o elementi che aiutano a costruire un mito. 

Ma, a ben guardare, non è del tutto così. 

1. Fiorello-Baldini  fanno rivivere il varietà, un mito che è nella storia e nel costume degli Italiani (allo stesso modo lo facevano Bonolis e De Laurentis per Lavazza, ora sostituiti da Brignano). Si avverte la presenza, senza vederle, di ribalte, passerelle, ballerine. E' una storia radicata, con una precisa aura mitica. Come ho già detto in altre parti, il  concetto di mito va inteso in senso ampio. E' la funzione-racconto che rimanda a un'origine, a un evento che continua a tramandare significati, collegando il passato al presente.

2. Dal punto di vista formale, l'elemento che sostiene la struttura mitica degli spot è la serialità. Senza serialità non c'è mito. Possono cambiare le battute e le azioni, ma ci si attende sempre e solo quel tipo di battute e quel tipo di azioni che appartengono alla natura stereotipata di due personaggi (il protagonista e la spalla). Gli stereotipi definiscono l'ordine e le regole attraverso cui un racconto regge la prova del tempo, assicurando la sua continuità. 

Il fascino virale del testimonial

Comprato e letto "Storie virali" di Joseph Sasson, un agile manuale sulle tecniche di narrazione di marca, con particolare attenzione all'incrocio tra storytelling e viralità. Utile e interessante il quadro riepilogativo sulle funzioni o regole narrative per costruire una buona storia, una storia cioè in grado di diventare virale. A quelle elencate da Sasson vorrei aggiungerne un'altra, secondo me importante: la funzione - testimonial.

Posso intuire alcune delle ragioni per cui questa figura chiave della comunicazione di marca e di prodotto, tipica della pubblicità "mad men", non sia stata presa in considerazione.

1. Il testimonial è dalla parte della marca, è un suo sostenitore. Con la sua apparente neutralità o innocenza, si muove in una zona di confine tra pubblicità e propaganda.
2. E' una figura calata dall'alto, imposta, e perciò poco web e social.
3. Spesso usa un linguaggio tecnico o comunque didascalico e la sua funzione dimostrativa impedisce lo sviluppo di una storia coinvolgente, con un intreccio capace di generare significati o emozioni.
4. Per tutte queste ragioni, il testimonial ha una natura scarsamente virale.

Vorrei portare un esempio, invece, di come il testimonial possa rappresentare un archetipo narrativo ideale anche per il web. 




In questo video uno scooterista mostra orgogliosamente come ha trasformato la sua moto montando cilindri e pistoni di marca Athena. Una trasformazione che ha migliorato le prestazioni del proprio amato scooter. Il video si chiama "L'evoluzione". Bel titolo, no?, per una storia.
Vediamo punto per punto che cosa la rende molto significativa per la comunicazione di marca e le potenzialità virali.

1. E' una testimonianza che nasce spontaneamente dal web. Non è calata dall'alto, non è uno spot prodotto da Athena, ma è il racconto di un appassionato scooterista. La sua storia di trasformazione, perciò, si presta a essere diffusa con il passa parola tra gli altri scooteristi, interessati come lui a migliorare le performance del proprio scooter.

2. E' una testimonianza credibile. Al testimonial non interessa parlare di Athena, ma della propria abilità e del proprio scooter. E' evidente però che la sua scelta precisa di utilizzare i prodotti Athena ha una ricaduta positiva di reputazione e di notorietà per la marca.

3. Il testimonial è attendibile e convincente. E' un esperto, che parla ad altri esperti. Fa parte di una comunità che si riconosce e si identifica in lui. 

4. Senza volerlo, il video usa una molla potente per spingere alla valorizzazione del marchio Athena. E' il comportamento imitativo, tanto più forte se fa riferimento a una comunità. E' quel comportamento che dice: "Se l'ha fattto lui, posso farlo anch'io". O anche: "Se ha usato il gruppo termico Athena, anch'io lo voglio usare".

Queste considerazioni aiutano a comprendere perché la figura del testimonial possa vivere con successo anche nell'ecosistema web, come una sua creatura e non come un'intrusione fastidiosa e sospetta che viene calata dall'alto e dall'esterno.

Ma dal nostro video possiamo ricavare altre suggestioni importanti e cioè che la funzione-testimonial ha anche una ricca potenzialità narrativa e virale, secondo gli schemi proposti da Sasson.

1. Il video è costruito secondo l'intreccio narrativo del prima e del dopo, tipico delle trasformazioni. Ha uno sviluppo, una consequenzialità e un lieto fine.

2. E' presente l'Aiutante Magico (secondo il modello della morfologia delle fiabe che anche Sassoon riprende): il gruppo termico Athena. Il pistone e il cilindro Atnea consentono di trasformare lo scooter, di passare a una situazione nuova e più gratificante.

3. C'è un Oggetto di Valore in cui si identificano le aspettative di tutta l'audience potenziale: lo scooter, inteso come stile di vita, come realizzazione di sé.

4. Una considerazione, infine, sulla viralità di questo video. E' evidente che il successo della sua diffusione non va misurato solo sulla base del numero di views, ma soprattutto della loro qualità. Sassoon sembra non tenere sufficientemente conto di questo aspetto secondo me fondamentale. Nel suo libro, l'indicatore di viralità prevalente rimane la quantità di views. Certo, il numero è importante, ma non sempre determinante. La funzione-testimonial, come ricordavo sopra, non parla a tutti, ma a una comunità ristretta e precisa. Ciò che conta, dunque, è che il video si diffonda all'interno di questa comunità, che può essere numericamente limitata. Se per qualche motivo si diffondesse al di fuori (perché ad esempio è curioso, divertente, ecc.), raccoglierebbe sicuramente molte più visite, ma non per questo favorirebbe la comunicazione di marca  e di prodotto presso il pubblico di riferimento.

Il potenziale narrativo di American Express

Il registro linguistico e le scelte delle parole sono fondamentali per costruire il mito di marca o di prodotto (v. il post precedente). Ci sono scelte particolarmente coraggiose, che possono suscitare qualche perplessità, ma meritano comunque rispetto. Piccole o grandi che siano, impongono alla comunicazione standard quegli scarti semantici che la arricchiscono e la migliorano. 




Con la campagna 2011/2012 "Esprimi il potenziale", American Express ha introdotto massicciamente nel codice narrativo della comunicazione la parola "potenziale". Non è stata la prima. Qualche anno fa Microsoft aveva già sdoganato il termine con una campagna secondo me straordinaria: "Your potential, our passion"




Francamente era difficile scommettere che una parola così fredda, con un registro linguistico alto e un valore semantico piuttosto tecnico, potesse diventare un segno di comunicazione caldo, accattivante, comprensibile. Non dico che "potenziale" sia una parola astrusa, ma sicuramente non è inclusa in quell'elenco di poche centinaia di vocaboli usati dall'italiano medio. E' vero che il target di riferimento in entrambi i casi è medio-alto e/o scolarizzato. Ma "potenziale" di suo rimane un termine freddo, analitico, poco adatto a rendere empatica la comunicazione.

Il merito di American Express e di Microsoft è di aver saputo trasformare "potenziale" in una figura carica di attesa, aspettative, emozione. L'hanno spogliato del suo significato prevalentemente tecnico, del suo registro alto, e hanno rivelato - mi si passi il gioco di parole -  le sue potenzialità narrative. 

Sono questi segni che contribuiscono a far crescere l'aura mitica di una marca. Come piccole divinità creatrici, danno nuovi significati alla nostra quotidianità, sembrano inaugurare nuovi mondi e nuove possibilità. Finché il loro "potenziale" finirà per perdere la carica poetica. E diventerà linguaggio comune. 


Techetecheté marketing

Fino all'anno scorso era Dadaumpa. Quest'estate è diventato Techetecheté. E' il format dell'archivio Rai con spezzoni di vecchi programmi e personaggi della TV. Il bianco e nero, le immagini talvolta poco nitide, i corpi e le voci così diversi dagli standard di oggi. Sembra che piaccia molto ai giovani e ai giovanissimi. Il motivo è semplice. E' il fascino delle origini. E' la forza del mito.

Il mito è, per così dire, una storia che viene vissuta. E' empatia, emozioni, curiosità. Consolida legami e fedeltà (in questo caso, l'attesa delle nove meno un quarto per vedere la nuova puntata del programma). L'esempio di Techetecheté può essere utile per vedere come il processo di costruzione del mito possa essere applicato con efficacia alla comunicazione di marca e, perché no?, di prodotto.

Ecco alcuni punti da tenere presente per "mitizzare" il brand.

1. Creare un'aura mitica. Raccontare la marca o il prodotto come fossero un mondo che dà significato a esigenze, bisogni, esperienze.
2. Creare un nuovo linguaggio con contaminazioni e stilizzazioni precise, che parla a e di quelle esperienze.
2. No alla storia monumentale, si alle piccole storie.
3. Dare voce ai testimoni.
4. Disseminare segni di riconoscimento.
5. Coinvolgere il pubblico.
6. Trasformare i clienti in narratori. 

Valori 3.0

La crisi economica - dicono - è anche un'opportunità. Più radicalmente, è una messa in discussione di valori che credevamo eterni. Tra i tanti, l'idea di sviluppo come crescita infinita, progressiva, potente. Il valore "sviluppo" tende a perdere le sue caratteristiche più aggressive e si presenta come un'opportunità di crescita mite, aperta ai bisogni delle persone e alle esigenze dell'ambiente. Uno sviluppo meno tonitruante e più pudico, meno impositivo e più condiviso. Efficienza, risparmio, sensibilizzazione, sobrietà sono alcuni dei tags che misurano la popolarità di questo sviluppo più "umano". Uno sviluppo - per così dire - 3.0, che cresce dal contributo e dalla partecipazione di tutti. 

La comunicazione dovrebbe fare propri questi valori e in parte lo sta facendo. Un marchio o un prodotto dovrebbero farsi riconoscere per la loro capacità di essere empatici, di lasciar parlare i consumatori o i clienti, di accogliere le loro ragioni. Ma, soprattutto, per la loro capacità di creare e comunicare efficienza, sobrietà e risparmio.  

Un esempio? Puma, con la sua politica della sostenibilità. Notevole il caso del nuovo store a Bangalore, in India. 800 mq carbon neutral, con uno spazio social e il coinvolgimento della comunità locale, chiamata a creare installazioni con materiali di scarto. Le opere scelte saranno esposte nello store e poi regalate al comune di Bangalore